L’india è per me fonte inesauribile di ricerca artistica e punto fondamentale della mia filosofia di vita. Vi andai per la prima volta nel 1986, in un periodo in cui sentivo che la mia ricerca pittorica era approdata ad un punto morto. Infatti, dopo varie esperienze in cui spaziavo da una figurazione classica ad una più prettamente espressionista ed infine ad una esplorazione mirata alla neo-figurazione, mi trovavo in un vicolo cieco in cui la mia necessità di narrare storie e situazioni stava diventando uno sterile stereotipo. In uno stato d’animo simile, misto di insoddisfazione e di aspettativa, l’India mi accolse con tutta la varietà delle sue genti, idiomi, odori e colori.

Colori soprattutto: inventati, indossati ed esibiti dalle molteplici etnie o scaturiti dalla generosa natura subtropicale, che si muovevano intorno a me in un caleidoscopico e vertiginoso ritmo, creando accostamenti insoliti e lontani dall’armonia alla quale ero pervenuto attraverso la mia indagine pittorica.

La convulsa attività di una grande città quale Bombay, dove uomini e donne si muovevano in un moto frenetico e variopinto, con i loro sari, turbanti e scialli; i minuscoli templi disseminati nel verde delle campagne, invadenti macchie di colori quali il rosso, il rosa, l’azzurro, l’oro; il verde della lussureggiante jungla dell’India del sud, dove il sole implacabile dell’Equatore inventava tonalità inedite ai miei occhi ; ed ancora la visione della pianura dell’altopiano del Deccan, terra di un rosso vivo intercalata a tratti dal verde di piccoli specchi d’acqua, sulle cui rive, i sari distesi ad asciugare al sole, creavano geometrie, rotture e forme; tutto questo, mi diceva che era arrivato il momento del cambiamento. Era arrivato il momento di cessare di narrare e di incominciare a descrivere.

Tradurre questo impulso in pittura, non fu tutt’uno ed anzi i primi mesi furono intensi di indecisioni, rifacimenti, prove. Mi fu di grande aiuto il supporto musicale, specie le musiche d’ambiente di Brian Eno, il cui calmo andamento (come guardare il lento mutare delle nuvole in cielo) ben si accordava con il bisogno di quella sintonizzazione interiore che sentivo come presupposto basilare per svolgere il difficile compito di distillare in forme visive l’insieme delle emozioni che mi animavano. Qualche anno dopo cominciai ad accostarmi alla musica popolare e devozionale indiana attraverso l’ascolto dei Bhajan e a muovere i primi passi nello studio autodidatta dell’armonium. Una svolta considerevole fu per me l’incontro con Gianni Ricchizzi, artista profondamente impegnato nella musica classica indiana, col quale iniziai lo studio del sitar, del canto ed infine del dilruba (strumento ad arco dell’India del nord).

L’esperienza musicale del “raga” attraverso l’improvvisazione di una melodia che rispetti le regole fondamentali della composizione classica indiana e soprattutto del “rasa”, il sentimento veicolato da ogni nota o successione di note, è la stessa esperienza che trasporto sulle tele, dove, attraverso il mio soggettivo senso estetico, gli stessi moti dell’anima si trasformano da suono in colore e da ritmo a forme.

Claudio Lasagni